Bambini e computer: imparare ad insegnare

Bambini in Rete: un milione di bambini a spasso per il Web
Bambini nella Rete
Giocare a scuola
Così il computer aiuta i bambini a crescere


 

Bambini e computer: imparare ad insegnare
Metodi e precauzioni per sfruttare al meglio le nuove tecnologie nell'età evolutiva


di Eleonora Giordani

Da un po' di tempo a questa parte va di moda, tra politici ed intellettuali, compiacersi della propria scarsa dimestichezza con gli strumenti informatici. Pur riconoscendo il valore e l'importanza delle nuove tecnologie, si criticano volentieri i programmi di videoscrittura in favore della cara vecchia macchina da scrivere, ci si lamenta del bombardamento di informazioni non controllabili in cui si incorre navigando in Internet e si invoca spesso la censura contro i pericoli della Rete. Immancabile ciliegina sulla torta di queste dichiarazioni tra il nostalgico e lo snob, arriva poi la sconsolata ammissione: sono figli e nipoti i veri detentori del sapere informatico.

L'affinità dei bambini con la tecnologia non è sorprendente: nascendo in un ambiente fatto di immagini in movimento, di stimoli visivi e telecomandi, è piuttosto facile capire istintivamente che si possono dare ordini ad una macchina cliccando sul mouse.

Il problema più grande è un altro: come utilizzare i nuovi media all'interno di un processo d'apprendimento veramente costruttivo per i più piccoli? Gli esperti di didattica ne discutono da quando si è capito che in una società regolata sotto molti aspetti dal computer, questo non può rimanere fuori dalla scuola. Oggi però dagli Stati Uniti associazioni come Alliance for Childood e l'Accademia nazionale di pediatria sollevano qualche dubbio circa l'opportunità di usare a tutti i costi il computer nei programmi della scuola elementare: la troppa familiarità con i mezzi informatici può rappresentare un pericolo per i bambini che poi navigano su Internet senza controllo. Mancano inoltre ricerche specifiche sull'impatto del computer nello sviluppo del processo cognitivo nell'età evolutiva. Il nostro Learning Center dedica un approfondimento alla questione.

I maestri che usano in classe gli strumenti informatici, rivendicano la loro scelta: non si tratta solo di insegnare a digitare su una tastiera, bisogna saper sfruttare la capacità del computer di rendere la conoscenza attiva, portando i bambini a creare le applicazioni di quello che hanno appreso.

E la strada percorsa da Seymour Papert, il matematico di origine sudafricana che ha fondato insieme a Marvin Minsky il Laboratorio di intelligenza artificiale del Mit di Boston. Papert è partito dalla matematica per capire come i bambini imparano a pensare e come può cambiare l'apprendimento grazie al computer. Da qui nasceva "Logo", un programma per lo studio della matematica concepito per gli alunni delle elementari e impostato sull'idea che deve essere il bambino ad usare il computer e non viceversa. Uno degli esperimenti condotti da Papert con Logo è stato quello di far realizzare dei videogiochi direttamente ai bambini, facendoli partecipare attivamente alla conoscenza. "Abbiamo dei bambini di nove, dieci anni che imparano a programmare ad un livello che normalmente non ci si aspetta neanche da studenti di scuole medie o addirittura da studenti universitari. Poi, nel realizzare questi giochi, devono svolgere molte operazioni. Ad esempio, per far saltare un personaggio del videogioco, il bambino entra nella matematica per capire la forma di un salto, di un percorso, di quello che un matematico chiamerebbe una traiettoria. E da questo, entra nella fisica per capire come funziona il salto in relazione alla gravità".

Il computer favorisce lo sviluppo delle capacità percettive ma anche dell'intelligenza, e in definitiva aiuta a crescere, anche secondo Anna Oliviero Ferraris, ordinario di Psicologia dell'età evolutiva presso l'Università di Roma "La Sapienza". Con qualche precauzione, però: il computer va usato progressivamente, con moderazione, in rapporto all'età e non deve assorbire troppo tempo. "Anche un bambino del primo ciclo delle elementari può avere la curiosità di esplorare la tastiera, di vedere che cosa può fare, appunto, sul video premendo alcuni tasti. Tuttavia, pensando alla globalità degli alunni, sicuramente il secondo ciclo delle elementari è più adatto. E si può iniziare con piccole cose perché naturalmente all'inizio il bambino deve conoscere lo strumento, deve capire come lo si utilizza, deve acquisire anche una certa competenza".

"I bambini sono estremamente curiosi soprattutto nei confronti degli ipertesti -prosegue l'esperta - quindi si sentono spinti a esplorare, navigare attraverso il computer. Tutto questo però loro tendono a farlo come se si trattasse di un videogioco. Quindi ci vuole l'azione dell'insegnante che li indirizza e che poi collega questa esperienza allo studio. C'è anche una questione fisica da tenere in considerazione: i bambini non si devono stancare stando troppo a lungo di fronte ad un video".

Insomma, la responsabilità più grande resta nelle mani degli adulti. Per Clotilde Pontecorvo, professore di Psicologia dello sviluppo e dell'educazione all'Università di Roma, "Il problema non sono le tecnologie, ma il modo in cui le tecnologie sono utilizzate nella scuola, sono proposte da chi elabora questi materiali software e il modo in cui gli insegnanti sono capaci di introdurle in una misura motivante, con una modalità che sollecita il lavoro dei ragazzi". Il dipartimento della professoressa Pontecorvo ha lavorato a lungo con delle scuole elementari e medie che hanno introdotto i computer per le attività di scrittura dei bambini e dei ragazzi: "Quello che si vede è che l'introduzione del computer sviluppa molto una attività di collaborazione, di scambio, di comunicazione, e modifica, direi, il modo in cui i bambini e i ragazzi apprendono a scrivere. Sviluppando un ipertesto relativo all'educazione ambientale abbiamo potuto osservare che la dinamica dell'apprendimento rispetto ai temi che sono proposti dall'ipertesto, cambia radicalmente, e si modifica, in modo particolare, la motivazione degli allievi". Il programma cui si fa riferimento è "Ecolandia", divenuto ormai un classico dell'educazione ambientale. I ragazzi sono motivati non solo perché c'è il computer, ma perché il problema presentato dal computer ha una rilevanza notevole ed è ricco di implicazioni sociali e geografiche.

Ma gli insegnanti sono preparati alle nuove tecnologie? Una migliore qualificazione sembra necessaria, ma questa può tranquillamente avvenire sul campo, suggerisce ancora Papert : "La cosa più importante che potrebbe fare un insegnante è essere un buon scolaro, imparare nuove cose insieme ai bambini e dare un buon esempio di apprendimento. L'essere realmente uno scolaro esperto dovrebbe costituire uno dei requisiti di un insegnante, insieme ad essere una persona calda, meravigliosa e comprensiva".
 

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Bambini in Rete
Un milione di bambini a spasso per il Web

di Roberto Salvatore/Smau.it


Ben l’8% del totale dei navigatori del nostro Paese ha meno di 14 anni, con una lieve predominanza maschile. Lo rileva una ricerca Nielsen/NetRatings, che evidenzia l’importanza della scuola e della famiglia come strumenti di guida attraverso la Rete. E nonostante i limiti tecnologici, Internet ha i numeri per competere persino con la TV.
E’ un popolo in marcia, lungo le strade artificiali fatte di bit ed etere. Sono i bambini, i protagonisti del futuro di una società sempre più informatizzata, sempre più caratterizzata da un’informazione globale e virtuale. In Italia, questo popolo è in continuo aumento, e già ora può contare ben un milione di adepti, un settimo del numero totale dei piccoli del nostro Paese, e pari all’8% dei navigatori complessivi.
In base alla ricerca Nielsen/NetRatings, società che costituisce lo standard di misurazione della Rete a livello mondiale, che ha analizzato il comportamento di navigazione di bambini dai 2 ai 13 anni, Internet dimostra di avere un rapporto privilegiato con i più piccoli, soprattutto con quelli di età compresa fra i 10 e i 13 anni. Ben il 62% dei bambini che hanno una connessione ad Internet in casa, infatti, appartengono a questa fascia d’età, seguiti dal 39% dei bimbi tra i 7 e i 9 anni, e dal 20% tra i 2 e i 6 anni.
I maschi mantengono ancora un lieve vantaggio sulle femminucce (55% contro 45%), un vantaggio che però è inferiore rispetto a quello che si riferisce agli adulti (62% contro 38%). Per quanto riguarda le fasce d’orario, i bambini italiani preferiscono collegarsi la sera, tra le 18 e le 21 (con un picco alle 20), fascia nella quale la Rete rivaleggia persino con l’intramontabile icona dei pomeriggi dell’infanzia: la TV. Il sabato e la domenica sono invece i giorni nei quali più di tutti il bambino si dedica alla navigazione online, e nei quali l’esperienza è maggiormente assistita dai genitori.
In generale, dalla ricerca risulta che i bambini delle scuole elementari percepiscono la navigazione come un’esperienza ludica, andando a visitare soprattutto siti legati a fumetti o cartoni animati, a programmi televisivi, a calcio e a giocattoli. Più matura l’esperienza degli studenti delle scuole medie, che usano la Rete anche come strumento di studio. In questo caso emergono attività più complesse come la ricerca approfondita e mirata d’informazioni, ma anche il download di immagini, di file audio e video, di accessori per cellulari, e l’utilizzo di mail e, a volte, di chat.
Il ruolo svolto dalla scuola è determinante, soprattutto in termini di indirizzare la navigazione del bambino verso finalità educative e stimolanti. Esistono comunque delle resistenze, soprattutto da parte degli insegnanti delle scuole elementari, legate all’ipotetica precocità del mezzo e alle difficoltà incontrate dai giovani navigatori a causa delle complessità linguistiche. Dal lato genitori, invece, Internet è visto come uno strumento importante e centrale per la crescita del piccolo, anche se esistono anche qui dei timori: natura elettronica del mezzo, contenuti “pericolosi”, pericolo di brutti incontri.
I dati incoraggianti dei giovani navigatori italiani si scontra però con i limiti tecnologici che affliggono il nostro Paese. Secondo i dati Nielsen/NetRatings, solo il 10% dei bambini naviga con un modem a velocità superiore ai 56kb, mentre la fibra ottica è quasi inesistente. Per questo, accanto ad un supporto didattico per i giovani navigatori, dalle scuole ci si aspetta anche un supporto economico che permetta l’accesso ad Internet a tutti gli studenti di scuole elementari e medie, attraverso la creazione di percorsi di formazione in Rete. Dai genitori deve invece arrivare un supporto formativo, attraverso un dialogo che sia al tempo stesso protettivo e costruttivo, e soprattutto mirato a cancellare i rischi, e a sfruttare le opportunità offerte dal Web.
 

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Bambini nella Rete
Intervista a David Meghnagi oggi alla guida
di un centro su onfanzia e tecnologie


di LUCIANA SICA


La "relazione d'amore" che i bambini intrattengono con il computer tende a scatenare previsioni nere sul futuro delle nuove generazioni. C'è una retorica del pessimismo che pervade il mondo adulto quando si accenna ai piccoli superesperti del Web, come se per loro Internet fosse uno strumento certo di analfabetizzazione oltre che una pericolosa baby sitter senza filtri né censure. Tutti a fare dell'allarmismo (ma non è stato sempre così di fronte ai grandi cambiamenti culturali?), e mai nessuno che si chieda se per caso i piccoli cybergeni non alimentano, proprio grazie alla rete, anche più fantasia e intelligenza dei bambini di un tempo, facendo un'esperienza altra del mondo, senza i contesti educativi già noti e dati come eterni.

Tra i tanti irriducibili dinosauri ostili a ogni forma nuova di conoscenza come pure tra i pochi nuovisti a oltranza mai sfiorati dal dubbio, le idee sono comunque molto confuse, basate inevitabilmente su impressioni più che su ricerche e studi di una qualche attendibilità. Il laboratorio di ricerca dell'infanzia, diretto da David Meghnagi presso l'università Roma Tre, è forse uno dei pochi luoghi dove il mondo emozionale e lo sviluppo cognitivo dei bambini viene studiato in relazione all'uso crescente delle tecnologie. Non a caso questa stessa università sta cercando di "aiutare" gli insegnanti di alcune scuole romane, dalle materne in su, a prendere dimestichezza con i computer e le potenzialità didattiche della rete.

Meghnagi, che quest'anno avrà la cattedra di Psicologia clinica, è anche un "ordinario" della Società psicoanalitica noto per i suoi studi sul rapporto tra freudismo ed ebraismo (da Il padre e la legge al carteggio tra Freud e Arnold Zweig, entrambi pubblicati da Marsilio). Meno noto è che Meghnagi ha avviato la sua attività proprio con l'osservazione dei bambini, quelli inseriti nei kibbutz israeliani, e poi a Roma con la cura di piccoli pazienti anche gravemente disturbati. Ora si direbbe preso da un "ritorno di fiamma" (anche sull'onda di una paternità molto vissuta) per i giovanissimi internauti. E' quindi allo psicoanalista dell'infanzia che ci rivolgiamo per capirne di più.

Saranno pure usati ancora poco e male, ma ormai i computer a scuola ci sono, e con fini esplicitamente pedagogici. Ma è la telematica da intrattenimento che intanto ha invaso il tempo dell'infanzia. Perché questi oggetti catturano così tanto la mente del bambino?
"Perché il piacere della manipolazione di questi oggetti per produrre cambiamenti del campo visivo entra in relazione con la straordinaria capacità di fantasticare del bambino, con il suo pensiero "sincretistico", basato sulla sovrapposizione delle cose, che ha una natura prevalentemente inconscia. Il mondo virtuale, che nelle sue varie espressioni rimanda alle metafore del mondo onirico, è molto vicino alla sensibilità infantile. La stessa destrezza elettronica del bambino nasce da questa profonda fascinazione, dal gusto di toccare e di trasformare, di agire sul reale anche se virtuale".

A lei non sembra sospetta tutta questa preoccupazione degli adulti? Sembra che vogliamo mettere i bambini sotto una teca, i nostri prodigiosi pargoletti, e contemplarli, meglio se da lontano...
"Dico che senz'altro c'è un'angoscia degli adulti nei confronti di tutto quello che non controllano... E' avvenuto del resto anche con la scrittura: la maggioranza dei genitori aveva paura di avviare i loro figli in età troppo precoce all'apprendimento della scrittura, e della lettura. Un atteggiamento irrazionale, se si pensa che per dire nella tradizione ebraica i bambini, già a tre quattro anni, imparavano a scrivere e a leggere, senza nessun effetto negativo... Il problema vero è un altro: è come e anche per quanto tempo i più piccoli possono tranquillamente navigare in rete".

Cominciamo dal "come"... Una volta certi di evitare i "brutti incontri", l'accesso ai siti violenti o pornografici, gli adescamenti dei pedofili e quant'altro, potremo lasciare i nostri figli soli davanti al computer?
"Direi proprio di no. Se l'adulto "deposita" un bambino davanti a un video, lasciandolo imbambolato e senza nessuna forma d'interazione con gli altri, grandi o piccoli che siano, la rete diventerà pericolosamente passivizzante... Internet non può essere in nessun caso un sostituto della relazione affettiva, emotiva, importante per tutti noi, e per i bambini ancora più essenziale".

Per quale ragione?
"Per la "semplice" ragione che la relazione umana è alla base dello sviluppo cognitivo e non solo emotivo del bambino, nel senso che le emozioni sono un'attività interpretativa della realtà e quindi un elemento irrinunciabile della crescita psichica. E questo sia dal punto di vista filogenetico, della memoria della specie, sia dal punto di vista ontogenetico, del nostro essere al mondo. Sono già di ordine interpretativo come un primo orologio che segnala la realtà le attività del sistema limbico, che è una parte più "antica" del cervello rispetto alle altre, dove è anche strutturata la sede dell'affettività e dell'aggressività. E sin dall'inizio, è la nostra stessa vita emotiva di tutti i giorni a filtrare la lettura cognitiva della realtà".

Tutto questo per dire cosa, su un piano meno astratto?
"Che l'intelligenza di un bambino è profondamente legata alla sua capacità di vivere ed esprimere le emozioni. E allora, va bene se c'è un adulto "significativo" accanto a un bambino davanti al computer, va benissimo se un gruppo di bambini gioca e apprende attraverso questo mezzo. Va male invece se il bambino si rifugia in una stanza, solo per ore davanti al video: questa è la spia di un disagio familiare, vuol dire che quel bambino non comunica con i genitori e cerca una qualche via di fuga rispetto a una situazione intollerabile, come una volta potevano essere i diari... Le tecnologie, anche le più istruttive, non possono mai sostituire la relazione "viva" tra la madre e il suo bambino, tra i genitori e il loro bambino. Questo è il punto".

Lei accennava anche a un problema di tempo di esposizione dei bambini al computer... Sembrerebbe una banalità e invece è una questione molto seria, che va almeno accennata.
"Purtroppo non c'è ancora nessuna cultura della salute legata all'uso del computer, che può aggredire la retina e affaticare gravemente gli occhi, così come un eccesso di mobilizzazione della mano può produrre dolori articolari, infiammazioni. Sono questioni serie, tanto più se parliamo dei più piccoli...".

Torniamo alla questione di fondo: i bambini ormai tendono a vivere la rete come il più grande giocattolo globale a loro disposizione. Non potrà essere anche un fatto positivo? Questi bambini alla fine non avranno forse "una marcia in più"?
"Senz'altro sì, se i bambini anche in età precoce saranno aiutati a usare attivamente il computer, e non solo a subirlo come un serbatoio da cui attingere passivamente, che sarebbe un modo per alimentare l'ignoranza. Ma l'educazione potrà conoscere un salto positivo di qualità soltanto se saremo in grado d'integrare il mondo della nuova oralità rappresentato dall'eterno presente del video con la tradizione della memoria e della scrittura, altrimenti andremmo incontro a un processo di svuotamento della dimensione storica, un danno culturale gravissimo".
 

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Giocare a scuola
di Marco Gasperetti


(Marco Gasperetti, Computer e scuola. Guida all'insegnamento con le nuove tecnologie, pp.25-35, Apogeo 1998)

Quanto si gioca a scuola? Poco, pochissimo. Spesso le lezioni procedono stancamente e nonostante gli sforzi degli insegnanti, studenti e alunni vivacchiano sbadigliando, non partecipano, si annoiano. Di chi è la colpa? Di professori e maestri troppo pedanti? Dei ragazzi svogliati? Oppure di una didattica indietro con i tempi e soprattutto poco giocosa? Quest'ultima è una domanda retorica con una risposta già implicita: sì, a scuola si gioca poco. Eppure psicologi, psicopedagogisti e sociologi da secoli continuano a predicare una maggiore applicazione dell'attività ludica nell'apprendimento.

Gioco quindi sono
Provate ad andare a rileggere i manuali di filosofia e di storia dell'educazione, rimarrete sorpresi dalla presenza del gioco nell'educazione. Ne discutevano i Presocratici, ne parlava Platone, convinto della sua importanza, e Aristotele. Lo consigliava Quintiliano e persino nei secoli più bui del primo Medioevo, l'attività ludica veniva guardata con grande interesse. Per non parlare poi del Rinascimento e di Filippo Neri con il suo oratorio molto orientato agli interessi dei bambini e quindi al gioco.
Per arrivare, saltando secoli e dimenticando decine di grandi pensatori, fino a Johan Huizinga che, con Homo ludens, dimostrò che l'uomo è un animale giocoso e che tutto il suo mondo ha carattere ludico.
Giocare quindi per essere, per mettere a frutto le proprie potenzialità in un ambiente privo dai rischi del reale. Molti etologi hanno studiato l'importanza del gioco nei primati. Per anni hanno osservato il comportamento dei leoni e dei gorilla e si sono accorti che i cuccioli incapaci o impossibilitati a giocare restano immaturi e da adulti non sono capaci di affrontare le insidie della natura. Quindi sono destinati a morire.
Il gioco nei primati è, infatti, una sorta di allenamento, di prova generale per affrontare la realtà. Il piccolo leone gioca con la coda della mamma. Poi la leonessa offre al cucciolo una piccola preda tramortita. Infine lo invita con sé a caccia. Il piccolo impara, tranquillo, senza stress. E un domani sarà capace di affrontare la vita reale, di cacciare ed evitare il pericolo.

Giocare per diventare grandi
L'uomo non si discosta molto da questo modello di apprendimento naturale. Secondo alcuni studi effettuati negli Stati Uniti negli anni Sessanta, i bambini impossibilitati a giocare sono meno intelligenti, hanno poco senso pratico e avversione verso i propri simili. A Boston, dal 1965 al 1968, lo psicologo Levenstein e la sua équipe furono protagonisti di un progetto rivoluzionario. Una serie di ricercatori dell'università insegnarono a un gruppo di genitori dei sobborghi di Boston a giocare con i propri figli o comunque a incentivare la loro propensione al gioco. Il risultato fu sorprendente: i bambini che avevano partecipato al programma svilupparono un miglior adattamento e una migliore capacità di risolvere i problemi, anche di carattere intellettuale.

Lo scatolone giocoso
Il computer di oggi, quello multimediale, ha una natura ludica. Suona, fa scorrere immagini, consente di creare mondi come se si plasmasse dell'argilla fatta di bit (è quella che viene chiamata manipolazione cognitiva), si trasforma in un teatrino, oppure in un telefono, e ancora in un bosco da esplorare. E' così giocoso, il computer, che i bambini riescono ad adattarvisi in modo naturale. A volte restiamo impressionati dalle capacità di un piccolo di 3 o 4 anni di muovere il mouse o il joystick ed entrare in sintonia con le macchine. E tutto ciò nonostante la assoluta inadeguatezza di dispositivi come tastiera e mouse, interfacce estremamente innaturali.

Videogiochi, perché no?
Ma il computer è una macchina giocosa soprattutto perché nella forma "home", casalinga, è un marchingegno dove "girano" i giochi elettronici. Tutto iniziò nei lontani anni Settanta (ma a livello sperimentale i primi videogiochi risalgono agli anni Cinquanta). Come non ricordare videogiochi come Pong o Space Invaders? Il primo era una specie di tennis. Una pallina virtuale si muoveva sullo schermo e i giocatori dovevano farla rimbalzare da una parte all'altra. Space Invaders, molto più complesso, permetteva di trasformarsi in piloti di una navicella spaziale e combattere decine di alieni mutanti. Di strada ne hanno fatta quei giochini in bianco e nero che occupavano pochi bit di memoria. Oggi i videogiochi sono diventati così complessi da apparire come veri e propri film interattivi nei quali il giocatore può muoversi e interagire con personaggi virtuali. Ma andiamo con calma e cerchiamo di stendere una tassonomia dei videogiochi.

Violenza manifesta e latente
I videogiochi arcade o più banalmente "spara e fuggi" sono stati i primi ad invadere il mercato e continuano ad essere i più apprezzati dai teenagers. Fanno parte di questo genere giochi come Space Invaders e oggi, grazie ai progressi della grafica computerizzata, sono così realistici da avere la sensazione di essere realmente in quel luogo. Solitamente i videogiochi di questo genere hanno un alto grado di violenza. Le ambientazioni sono guerresche o poliziesche. Sulla violenza "manifesta" dei videogiochi è stato detto moltissimo e non ci soffermeremo oltre. Ciò che ci preoccupa di più non è tanto questo tipo di violenza visibile. Temiamo di più il messaggio latente veicolato da certi giochi.
Ecco un esempio: tempo fa i giornali hanno molto enfatizzato la comparsa sul mercato di Evil 2, uno "spara e fuggi" stile realtà virtuale. Il giocatore impersona una specie di Rambo del futuro che deve sterminare un esercito sconfinato di zombie. I particolari sono raccapriccianti: teste mozzate, cervelli che schizzano fuori dalla scatola cranica, arti amputati, sangue da ogni parte. I media ne hanno parlato molto, descrivendo ogni particolare visibile, ma trascurando secondo noi di affrontare un problema più sottile. Al di là della violenza gratuita manifesta, qual è il messaggio subliminale nascosto? Semplicemente la condanna di stile nazista dell'alterità, del diverso. Gli zombie , insieme ai diversi, ai brutti, agli sporchi e ai cattivi, possono diventare nell'immaginario degli adolescenti extracomunitari, albanesi, turchi e tutti i diversi di questo mondo. Così il messaggio xenofobo è: "quelli ti minacciano, uccidili". E il ragazzino ubbidisce e spara all'impazzata con il joystick.
Una provocazione. Crediamo non sia così importante il grado manifesto di violenza dei videogiochi che fa scandalizzare i benpensanti e parlare i giornali. Sparare a qualche personaggio di bit non ha mai fatto male a nessuno (ovviamente bisogna fare attenzione all'età, perché i bambini piccoli fanno fatica a distinguere realtà e fantasia). Preoccupa invece questa invasione subliminale di messaggi razzistici. Ancora più ci fanno paura i videogiochi camuffati. Sono giochi con un aspetto rassicurante, con scenografie in rosa e pupazzetti graziosi. Ce n'era uno, uscito una decina di anni fa, nel quale si aggiravano decine di simpatici elfi. Gli elfi uscivano dalla macchina degli elfi, erano tutti uguali e saltavano senza scopo a destra e a manca. Una volta ogni tanto, però, la macchina andava in tilt e "pensava differente". Risultato: uscivano elfi diversi da tutti gli altri (chissà forse anche più intelligenti!) e dovevano essere assolutamente annientati pena la perdita del gioco. Bene, mettete un bambino davanti a videogiochi così fatti e lui imparerà che la "normalità" e l'ordine devono essere difesi a ogni costo. La differenza è invece un danno e deve essere annientata. Evviva la società della diversità. Superfluo ogni altro commento.
Eppure non tutti gli "spara e fuggi" sono dannosi. La sociologa Sherry Turkle, per esempio, considera un buon esercizio per la coordinazione motoria giocare a Pacman (una specie di palla che ingurgita piccoli fantasmi colorati) e la Kyber di Pistoia ha appena realizzato Elicopter, un simpatico giochino arcade con il quale, tra uno sparo e l'altro, si impara la matematica.


Le avventure interattive
E' forse il genere ad aver ottenuto, grazie al progresso tecnologico, una evoluzione eccezionale. Nate una ventina di anni fa, le "adventures" erano all'inizio soltanto testuali. Al monitor appariva una scritta di questo tipo: "Sei in una radura sperduta. Se giri a destra incontri un cavaliere, se volti a sinistra trovi un sentiero, indietro e avanti non puoi tornare". Premendo il tasto D (destra) o R (right se i comandi erano in inglese) l'avventura proseguiva seguendo alcuni schemi prefissati, se si decideva di girare virtualmente a sinistra la trama cambiava completamente.
Con gli anni e lo sviluppo della multimedialità e della grafica computerizzata, le avventure sono diventate sempre più sofisticate. Alla fine degli anni Ottanta uscì sul mercato un videogioco rivoluzionario. Si chiamava Martian's Dreams, Sogni Marziani. Perché rivoluzionario? Perché era un'avventura storica e si incontravano personaggi realmente vissuti all'epoca vittoriana. Tra questi Sigmund Freud, Gregorij Rasputin e lo scrittore H. G. Wells, l'autore della Macchina del Tempo e della Guerra dei mondi. I personaggi, trasformati in pupazzetti di bit, permettevano al giocatore una piccola ma affascinante interazione. Così, Freud raccontava di aver appena finito di scrivere l'Interpretazione dei sogni, altri personaggi rispondevano a diverse domande e il giocatore aveva la sensazione di essere immerso in quel micromondo e di essere in qualche modo tornato al passato.
Da quei Sogni Marziani sono passati più di due lustri, un tempo geologico quando si parla di sviluppo informatico. Oggi le avventure sono diventate così perfette da essere film interattivi interpretati da veri attori. Con il vantaggio, rispetto ai film tradizionali, di avere un'interazione con i protagonisti e di partecipare alla trama. Ci sono gialli, film di fantascienza, alcuni addirittura realizzati solo per computer come Indiana Jones e il segreto di Atlantide o Ubik, tratto dal romanzo di Dick, l'autore di Blade Runner.
Il futuro, ormai dietro l'angolo, è affascinante. Si sta studiando la possibilità di dotare i personaggi di una certa intelligenza e addirittura di una personalità. E c'è chi ipotizza incontri virtuali con personaggi storici e filosofi, copie quasi esatte che si lasceranno intervistare. Bisognerà aspettare ma non troppo. I primi esperimenti di personalità virtuale sono già una realtà.

Simuliamo il mondo
Anche i giochi di simulazione hanno avuto negli ultimi cinque anni un notevole sviluppo tecnologico. E sono diventati un grande business. Ormai si simula tutto, persino Dio. Sì, proprio la divinità in persona. Programmi come Popolous III, Civilization, Age of Empire II, SimLife danno la possibilità a ragazzi (e adulti) di costruire mondi, civiltà e guidare interi popoli verso l'evoluzione.
La volontà di potenza non vola sempre così in alto. Ci sono simulazioni molto più "abbordabili": dalle classiche corse automobilistiche al gioco del calcio, dalle simulazioni aeree al basket digitale. Insomma tutto può essere simulato. E' una simulazione anche il giochino Tamagotchi, il pulcino virtuale. Ed è una simulazione Virtual Girl nel quale il coccolato, a differenza del Tamagotchi, non è un animale, ma una ragazzina, una dimostrazione di come la donna-oggetto sia ancora lontana da sparire, anche nei media del futuro.

La simulazione entra all'università
Nonostante le varie bizzarrie e la spazzatura digitale sempre presente sul mercato, i giochi elettronici di simulazione sono stati accettati con grande interesse dal mondo scientifico. SimCity, un software che consente di simulare la costruzione di una città, è stato adottato dall'Università della California per le esercitazioni degli studenti. Un altro videogioco della stessa serie, SimLife, ha avuto un grande successo nelle facoltà di biologia. Il software permette di creare un micromondo e far progredire creature artificiali. Piccoli esserini di bit vivono, si moltiplicano e muoiono, seguendo regole biologiche anche complesse. Insomma, con i giochi di simulazione si può entrare in una realtà virtuale, ma sempre realtà e quindi mettere in pratica le nozioni studiate sui manuali. Alcune software house, come le italiane Giunti Multimedia e Finson, hanno realizzato anche dei "software laboratorio". In altre parole con questi programmi il computer si trasforma in un laboratorio di chimica, di fisica, di astronomia o di matematica e studenti e docenti possono simulare esperimenti altrimenti impossibili nella realtà.
Il laboratorio virtuale di Edumat, edito da Giunti Multimedia

I videogiochi entrano a scuola
E' possibile utilizzare il gioco e i videogiochi nella didattica? La risposta è sì. Anzi, è auspicabile. Nella scuola elementare di Arcola, in provincia di La Spezia, è stato avviato un progetto, ancora in fase embrionale, per arricchire la didattica di attività ludica. Sono state organizzate alcune conferenze dedicate agli insegnanti ed è stata creata una biblioteca software con decine di programmi. Poi si passerà alla fase operativa. Il gioco, anche in forma elettronica, entrerà nelle classi.
A Livorno è appena partito un programma di grande interesse per l'avvio delle tecnologie nelle scuole materne. E il gioco ha un ruolo fondamentale. Un gioco libero, poco strutturato. I piccoli disegneranno al computer, giocheranno a decostruire le immagini, ad animarle, passando dal disegno libero su carta a quello sul computer, in uno scambio continuo di media, emozioni ed esperienze. Insomma, una specie di "formulazione", quel modo di disegnare in libertà per sé stessi, fissando il proprio sé, sperimentando un disegno, una "traccia naturale", come la chiama il pedagogista Arno Stern. Ma le materne non sono l'unico luogo dove l'attività ludica può diventare didattica. Elementari, medie e anche superiori possono aprire le porte ai videogame. Non tutti, ovviamente.
Come scegliere? Anche qui entra in gioco l'istinto dell'insegnante. Il videogioco è un cavallo di Troia per rendere giocose materie e insegnamenti spesso noiosi? Bene, allora cerchiamo di monitorare i gusti della classe, la voglia di fare, di partecipare. Scegliere non è facile e sarebbe importante poter avere i prodotti in prova, come accade all'estero. Sarebbero indispensabili anche delle figure professionali nuove, i "dimostratori" che, come i rappresentanti delle case editrici, incontrano gli insegnanti, mostrano il programma e lo lasciano in prova per alcuni giorni. Paura della pirateria? Ci sono accorgimenti tecnici capaci di risolvere, anche se in parte, il problema: all'interno del programma originale viene inserito un piccolo software che, dopo una data predefinita, blocca il programma e lo rende inutilizzabile. Questo stratagemma viene già adottato da molte società produttrici di software per offrire senza troppi rischi i loro prodotti in prova. Il programma di grafica Photoshop, per esempio, può essere scaricato da Internet e provato per alcuni giorni. Poi al monitor appare un messaggio: il periodo di prova è scaduto - E' arrivato il momento di acquistare il prodotto pagandolo con carta di credito, sempre su Internet. Se si ignora il messaggio, dopo qualche giorno il software si blocca e diventa inutilizzabile.

Il consulente di software
Un'altra figura importante è quella del consulente di software, cioè un professionista specializzato in alcuni settori, esperto di software e in grado di disporre di programmi. L'autore di questo libro, giornalista, psicopedagogista ed esperto di computer, ha la fortuna di avere rubriche dedicate alla multimedialità su alcuni giornali e quindi riceve quotidianamente CD-ROM dalle case produttrici. Da un po' di tempo, durante alcune conferenze, gli è stato chiesto di mostrare il software e dare una sua valutazione personale, secondo i propri gusti, la professionalità acquisita e le sue competenze. Gli incontri hanno avuto successo. Insegnanti, ma anche genitori e ragazzi, hanno assistito con interesse alle presentazioni durante le quali c'è stato anche uno scambio di opinioni. E' chiaro che i consulenti di software devono offrire alcune garanzie:
1. devono essere indipendenti dai condizionamenti delle case produttrici;
2. devono avere competenze specifiche di psicologia, e didattica;
3. devono parlare chiaramente e presentare i programmi nel modo migliore. Insomma, devono essere dei comunicatori.
E le software house cosa ci guadagnano? Ci guadagnano, se accettano serenamente le regole del mercato e sapranno differenziare l'offerta e aumentare la qualità.

La qualità dei videogiochi
Un paragrafo a parte merita il discorso sulla qualità dei videogiochi e di tutti i programmi multimediali. Purtroppo, a nostro avviso, siamo ancora molto indietro. Questo nonostante il sensibile progresso tecnologico e il realismo raggiunto. Il mercato ha puntato molto sui giochi di totale disimpegno e quelli dedicati alla didattica hanno seguito spesso vecchi schemi, mutuati dal medium libro. Allora ci chiediamo: per quale motivo dovremmo studiare la storia utilizzando una copia digitale del libro di testo arricchito da qualche immagine e collegamento ipertestuale? La risposta non esiste, perché il libro tradizionale resta ancora il miglior mezzo per trasmettere la scrittura. Ma se il libro diventa immersivo, se si incontrano personaggi storici, se il ragazzo si diverte a giocare con le macchine di Leonardo o a replicare l'esperimento dei gravi di Galileo, allora avrà imparato qualcosa. Avrà fatto del ludiforme, termine coniato dal grande pedagogista Aldo Visalberghi per indicare tutte quelle attività (studio e lavoro) che nascondono un'anima giocosa. Perché giocando si impara meglio.

Carducci virtuale
Precipitiamo nell'utopia se immaginiamo un Inferno di Dante esplorabile con un videogioco? Niente affatto. Il professor Marco Santagata, direttore del Dipartimento di italianistica dell'Università di Pisa, ha realizzato una cosa simile e, grazie alla Rai, lo ha messo in rete all'indirizzo Internet www.italica.it facendo giocare (e imparare) un sacco di ragazzi. E allora perché non preconizzare giochi "full immersion" grazie ai quali, senza dimenticare libri e spiegazioni, è possibile incontrare l'avatar del Carducci, magari davanti ai cipressi di Bolgheri, alti e schietti. Oppure fare due chiacchiere virtuali con Einstein o magari discutere il mito della caverna con Platone e il decostruzionismo con Jacques Derrida.
Le tecnologie sono già in grado di sfiorare la fantascienza. Ma mancano volontà politica e personale qualificato.
Per realizzare software simili sono indispensabili pesanti investimenti e fino a oggi i produttori hanno avuto paura. La rincorsa alla multimedialità tout court ha fatto molte vittime: Anni fa alcune società hanno creduto di trovare l'Eldorado tecnologico: Poi si sono accorte di essere prive di idee e di contenuti (ricordate? Il computer è un medium allo stato puro) e sono morte. Oggi, le superstiti, hanno paura.
Quindi che fare? Intanto ipotizzare la nascita di una collaborazione più forte tra centri di ricerca, università, case produttrici di software e Ministero della Pubblica Istruzione per avviare un programma orientato a una didattica multimediale di qualità. Quindi creare figure professionali capaci e con un retroterra culturale adeguato. Non è possibile affidare il progetto di un videogioco educativo a un ragazzetto, bravissimo nella programmazione, ma all'oscuro di ogni problematica legata all'educazione.
Ma qualcosa all'orizzonte sta nascendo. Il lavoro di laboratori all'avanguardia, come quello di Tecnologie didattiche dell'Università di Firenze, ha creato un humus ideale e stanno nascendo corsi e lauree brevi per formare personale specializzato con una cultura e una preparazione non solo tecnica ma umanistica e pedagogica. Allo stesso tempo il ministro Berlinguer ha iniziato una battaglia che potrebbe portare a sviluppi anche clamorosi. Insomma c'è da essere ottimisti. Dice Roger Schank: "Aspettate ad acquistare i software didattici, ne nasceranno di migliori". Forse l'attesa è finita e tra poco anche i frivoli videogiochi vivranno una nuova stagione.

Videogiochi e ragazzi
Usare i videogiochi a scuola può essere un sistema per richiamare l'attenzione dei ragazzi su argomenti considerati ostici o noiosi. Molti videogame, come per esempio le adventures e le simulazioni, affrontano inconsapevolmente problemi matematici o si muovono in ambientazioni storiche. Quindi possono essere impiegati per aiutare bambini e ragazzi ad entrare anche emotivamente "dentro" le materie che stanno studiando. D'altra parte i videogiochi sono i software più usati tra i giovani che possiedono un computer.
Una ricerca realizzata in Italia dalla Disney e dalla Doxa su 2.505 bambini di sesso maschile e femminile e di un'età dai 5 ai 13 anni ha stabilito che il computer viene usato soprattutto per giocare (22,8% di intervistati), il 7,6% lo usa per scrivere, mentre solo il 4,7 % per fare i compiti. I dati però sono parziali e secondo gli esperti non tengono conto del grande impulso che il Piano Berlinguer sull'introduzione della multimedialità in classe sta dando alla produzione di software didattico. Sempre secondo la ricerca di Disney e Doxa a usare il computer sono per la maggioranza ragazzi più grandi (34%) e di sesso maschile: 27,6% contro il 20,9% di intervistati di sesso femminile.
 

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Così il computer aiuta i bambini a crescere

Parla Anna Oliviero Ferraris: "Può essere utilizzato
fin dalle elementari, ma attenzione a non esagerare"

a cura di MEDIAMENTE - RAI EDUCATIONAL
 

Anna Oliverio Ferraris, quale ruolo può avere il computer nella didattica?

"Può avere moltissime utilizzazioni. Naturalmente la cosa importante è che si integri al curriculum, che non sia un elemento distaccato dal resto della formazione. Quindi va studiato molto bene in rapporto al programma e alla materia in cui lo si vuole inserire. E poi ci sono, ovviamente, delle variazioni in base all'età e in base all'esperienza che gli alunni hanno già oppure non hanno con il computer. Con i bambini più piccoli verrà utilizzato soltanto qualche volta per fare disegni, per stampare un testo che si è scritto, per familiarizzare con la tastiera, mentre con i ragazzi più grandi può essere utilizzato per fare delle ricerche, per fare dei calcoli, per scrivere dei testi, per mandare delle e-mail ad amici e ad altre scuole. Si può fare anche una conferenza in diretta; non c'è che l'imbarazzo della scelta".

A che età un bambino può avvicinarsi al computer per divertirsi ma anche per imparare?

"Anche un bambino del primo ciclo delle elementari può avere la curiosità di esplorare la tastiera, di vedere che cosa può fare, appunto, sul video premendo alcuni tasti. Tuttavia, pensando alla globalità degli alunni, sicuramente il secondo ciclo delle elementari è più adatto. E si può iniziare con piccole cose perché naturalmente all'inizio il bambino deve conoscere lo strumento, deve capire come lo si utilizza, deve acquisire anche una certa competenza. I bambini mostrano una grandissima motivazione. Io sto seguendo un esperimento da tre anni, iniziato in terza elementare e adesso arrivato fino in quinta. I bambini di questo nucleo sperimentale sono molto attratti dal computer e da quello che si può fare e vedere anche attraverso il computer. I bambini sono estremamente curiosi soprattutto nei confronti degli ipertesti, quindi si sentono spinti a esplorare, navigare attraverso il computer. Tutto questo però loro tendono a farlo come se si trattasse di un videogioco. Quindi ci vuole l'azione dell'insegnante che li indirizza e che poi collega questa esperienza allo studio. Questo non significa che si debba tralasciare il libro o la scrittura a mano. Questi elementi devono rimanere, anche perché sono vicini alla biologia del bambino, però a fianco può esserci il computer che va usato progressivamente, con moderazione, in rapporto all'età e non deve assorbire troppo tempo. C'è anche una questione fisica da tenere in considerazione: i bambini non si devono stancare stando troppo a lungo di fronte ad un video e ci sono una serie di accorgimenti da prendere però sicuramente le nuove generazioni dovranno lavorare sempre di più con questo strumento, quindi devono conoscerlo in tutte le sue potenzialità".

Che cosa affascina il bambino quando si trova di fronte a un computer? Quali sono gli elementi più interessanti e su cosa può puntare un insegnante?

"Molti programmi sono basati sull'immagine e naturalmente l'immagine attira moltissimo, anche perché poi sono immagini colorate e a queste immagini sono abbinati dei suoni. Per non parlare poi degli ipertesti che costituiscono una specie di avventura. Ci sono dei percorsi guidati, immagini molto affascinanti e tutto questo ovviamente attira. Ma anche la possibilità di creare qualcosa direttamente è molto importante, cioè costruire dei testi, poter fare dei disegni, delle ricerche e potere anche comunicare con una classe di bambini che si trova da tutt'altra parte, oppure fare il giornalino di classe. I bambini possono imparare molte cose sul computer. Molto rapidamente possono rendersi conto di come lavorano i vari programmi e tutto questo può avvenire sotto una forma giocosa in classe, in gruppo, purché l'insegnante sia preparato. Ci vogliono insegnanti preparati che abbiano una conoscenza abbastanza approfondita del computer, perché quando si verifica un problema bisogna anche saperlo superare rapidamente, altrimenti si perde una gran quantità di tempo".

Per quanto riguarda il rapporto e la comunicazione fra ragazzi, come il computer può essere utile?

"Può essere un pretesto per socializzare. In genere i bambini lo utilizzano, perlomeno a scuola, sempre in due o tre insieme. C'è sempre un gruppetto di bambini intorno al computer quando c'è un computer in classe e quindi non ci sono controindicazioni dal punto di vista della socializzazione, a meno che il bambino lo utilizzi da solo in casa e ci trascorra ore e ore. In questo caso il computer assume il valore di una fuga dalla realtà, come può capitare a volte, o perché il ragazzo ha dei problemi personali o perché si abitua troppo a quel linguaggio. Il computer viene usato molto per i videogiochi e il bambino si abitua ad avere tante gratificazioni, piccole soluzioni, diciamo "virtuali" che gli danno molta soddisfazione e allora può, se esagera, preferire questo tipo di gratificazioni a quelle che può ottenere nel mondo reale che gli appare come più complicato e meno sotto controllo rispetto invece ai risultati che può avere con i videogiochi. Quindi i bambini vanno sorvegliati, il computer non deve essere utilizzato senza assistenza. Bisogna seguirli e gli adulti devono aggiornarsi e conoscere il mondo delle nuove tecnologie".

Dunque è questo è il consiglio che lei darebbe per utilizzare il computer in famiglia?

"Bisogna che anche gli adulti lo conoscano perché, attraverso il computer, si possono fare molte cose utili, positive, ma anche molte altre negative. Pensiamo solo ai videogiochi. Ce ne sono di istruttivi, di educativi, ci sono videogiochi basati sulla simulazione che possono insegnare molto al bambino, aiutarlo a sviluppare la propria immaginazione, farlo diventare, per esempio, un personaggio che gira nell'antica Roma, oppure nella New York contemporanea. Ci sono dei videogiochi attraverso cui si impara, divertendosi. Si impara la geografia, si impara a costruire una città e a capire tutte le esigenze che ci sono per farla funzionare. Ma ci sono anche dei videogiochi ripetitivi, scarsamente intelligenti e su cui non vale la pena di perdere troppo tempo e dei videogiochi violenti. I videogiochi violenti possono essere pericolosi soprattutto perché danno un'immagine estetizzante della violenza. La violenza in quei videogiochi sembra bella, sembra facile, e soprattutto poi non si vedono le conseguenze negative. E questo è diseducativo. Quindi, sapere cosa fa nostro figlio con il computer è molto importante".

Dunque, seguirlo anche quando naviga su Internet?

"Anche quando naviga su Internet, anche solo perché non perda troppo tempo. Bisogna fargli capire fin dall'inizio che c'è moltissima spazzatura ed è inutile seguire tutto. È meglio andare direttamente al sito che ci interessa. E poi ci sono anche dei siti pericolosi che non è il caso di frequentare ad una determinata età. Come noi educhiamo i nostri figli a orientarsi nel mondo, per strada, così dovremo educarlo ad orientarsi in questo mondo virtuale che presenta tante possibilità di strumentalizzazione. Pensiamo a quel film "nemico pubblico", che è attualmente in circolazione, dove un gruppo di giovani, che non sono dei ragazzini però sono dei giovani, lavorano per un ente di stato che fa dello spionaggio. Questi giovani non si chiedono che cosa stanno facendo. Sono talmente sedotti dal piacere di usare questi strumenti, queste tecnologie così avanzate, così potenti, che si lasciano strumentalizzare completamente. Se noi inseriamo queste tecnologie così potenti a scuola, se le diamo in mano a dei ragazzi, dovremo anche subito fin dall'inizio spiegare che ci possono essere tanti usi diversi e che ci possono anche essere degli usi negativi e che loro stessi possono essere strumentalizzati".

Molto spesso alcuni videogiochi sono destinati soprattutto ai maschi. Perché, secondo lei?

"Perché tutte queste macchine sono state inventate da maschi e molti di questi videogiochi sono fatti da maschi per maschi, quindi con una mentalità maschile e sono in gran parte basati su azioni, avventure e violenze. Però questo non significa che le bambine non siano interessate. Si è visto che a volte basta cambiare il contenuto di un videogioco o di un ipertesto o di una qualche storia che può essere vista al computer perché anche le bambine si interessino. Invece di una storia di pirati o di cowboy, basta creare una storia in cui degli orsi cercano il miele, per esempio. Gli orsi devono superare una serie di ostacoli per trovare il miele e le bambine possono risolvere lo stesso tipo di problema dei loro coetanei di sesso maschile in un contesto differente e a loro più consono. In questo modo maschi e femmine possono applicarsi entrambi allo stesso modo e risolvere lo stesso tipo di problemi".

A Genova, alla Città del Bambino, si dà la possibilità ai bambini di sperimentare varie tecnologie. Anche divertirsi all'interno di un piccolo studio televisivo dove possono giocare a fare la televisione. Questo, secondo lei, è positivo?

"Non solo è positivo ma è indispensabile perché oggi uno dei rischi nel rapporto bambini-televisione è che i bambini diventino passivi, che siano soltanto degli spettatori. Invece, se possono fare loro della televisione o costruirsi un home video, sono loro i protagonisti, gli attori. Vedere anche queste tecnologie dall'altra parte è molto importante perché queste competenze non devono rimanere un bagaglio esclusivo di una minoranza di individui, ma devono essere conosciute dal maggior numero di persone possibile in modo da capire anche meglio il perché di certi messaggi, perché alcuni messaggi vengono costruiti in un certo modo piuttosto che un altro. Direi che è proprio una questione di democrazia. La televisione è uno strumento potentissimo e che può, appunto, trasmettere notizie in tempo reale facendoci conoscere molto del mondo ma si può anche manipolare molto in sede di montaggio e si può far vedere una cosa invece dell'altra. È bene che man mano i bambini si rendano conto di tutto quello che si può fare in televisione sia in senso positivo che negativo. Bisogna essere poi anche in grado di decodificare, di leggere al di là delle immagini".

Come fare capire al bambino che quando si trova di fronte alla TV o al computer si trova di fronte a un mondo non reale?

"Ma questo dipende molto dall'età del bambino: Fin verso i 5-6 anni i bambini confondono molto il vero con il falso, in alcuni momenti ne hanno la percezione, in altri no, a seconda anche di quello che vedono. Poi incominciano a distinguere e distinguono anche i vari generi, la fiction dal telegiornale, per esempio. Però quello che resta molto difficile da differenziare, a volte anche per gli adulti, è il vero dal verosimile. Molte cose sono verosimili però questo non significa che siano vere. Ecco perché è necessario fare una attenta analisi del messaggio, decostruirlo, capire che cosa ha voluto dire il regista oppure perché è stato mandato in onda in un certo orario o in un certo programma. Porsi tutta una serie di domande per diventare spettatori esperti e critici".

E per quanto riguarda il computer, come il genitore deve far capire al figlio che, attraverso Internet, proprio per il fatto che si può nascondere la propria identità quando si dialoga in rete, potrebbe incorrere in dei pericoli.

"Bisogna sapere che non si devono dare i propri dati, il proprio indirizzo, conoscere una serie di norme. Ma questo è abbastanza facile da insegnare. L'importante è che il bambino veda che anche l'adulto se ne intende. Se quando inizia ad avere un rapporto con questa tecnologia il bambino ha al suo fianco un adulto esperto, si affida molto al sapere dell'adulto e non ci sono problemi".

I programmi informatici possono essere utili per insegnare a leggere e a scrivere a bambini molto piccoli?

"Non più di quanto lo possano essere i tradizionali cartelloni. Anche perché bisogna distinguere la lettura dalla scrittura. La lettura è più facile, viene prima. La scrittura richiede una coordinazione e movimenti più complessi. Come avviamento alla lettura, non c'è attualmente nella tecnologia molto di più di quello che ci può essere normalmente nell'insegnamento tradizionale attraverso i cartelloni appesi al muro. In bambini molto piccoli i programmi informatici sicuramente non sono indispensabili. Con bambini più grandi può essere un buon esercizio, ad esempio, rivedere sullo schermo delle paroline che sono state scritte dal bambino per verificare gli errori che può avere fatto. Ma con i più piccoli direi che i cartelloni tradizionali o il metodo razionale va altrettanto bene, perché poi il bambino ha bisogno anche di sentire, di toccare, di usare le mani. Per esempio utilizzare dei cubetti con le varie letterine da poter mettere insieme. Non dimentichiamoci che il computer trasmette attraverso lo schermo e spesso i bambini hanno l'esigenza invece di avere qualcosa in mano. Quando fanno qualcosa attraverso il computer, poi vogliono stamparla. E il bambino ha bisogno di questa concretezza".

La Lego ha messo in commercio un CD-ROM con i Lego da costruire al computer, però in questo modo non si può utilizzare la manualità.

"I bambini hanno l'esigenza di essere coinvolti con tutti quanti i sensi e anche fisicamente di poter toccare le cose. Più sono piccoli e più hanno questa esigenza e lo schermo rimane un'astrazione rispetto a questo loro bisogno".

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